14 marzo 2012

Rosa, detta Gilda


di Paola Zapparoli

Rispetto ai primi tempi in cui ero arrivato al paese, il tragitto in treno mi sembrava nettamente più corto. Mantenevo ancora vivo il ricordo di quel nodo alla gola del ritorno, dopo un fine settimana passato a casa tra gli agi della mia vita di figlio unico.
Quando avevo scelto il settore ambientale non immaginavo che sarei finito in quel paesino sperduto con gli operai del comune a tagliare cespugli.
A quei tempi gli obiettori di coscienza non erano molto ben visti; men che meno dagli operai, poiché quello, per loro, era solo un metodo per saltare la naja.
Un po’ anche lo era, e così ci facevano scuola, insegnandoci i loro ritmi alcolici già dalle dieci di mattina. Il vino di quei colli era infallibile nel distinguere un esperto da un ragazzino, ma alla fine mi abituai anche a questo, sviluppai i muscoli a forza di lavori per le strade e diventai uno di loro.
Uscito dalla vecchia stazione, sentii subito la stretta della malinconia nel vedere quante cose erano cambiate.
Erano passati sei anni, tre mesi e diciannove giorni.

Dirigendomi verso il cimitero cercai di riconoscere qualcuno nei volti della gente frettolosa, ma non vidi nessuno né nessuno mi vide. Pensai al signor Toni, cariatide del bar centrale, e a Gigi detto il geometra, un ragazzo down che seguiva sempre i lavori dei cantieri.
Mi parve poi di vedere la signora Lina con il suo trolley per la spesa, colmo e sfilacciato; e di sentire il vecchio Dante, che con la scusa di essere matto insultava urlando questo o quel compaesano.
Ma sapevo che tutte queste persone non c’erano più, e mi sentii stanco e in colpa.
Il cimitero mi sembrò più vivo delle strade, e li ritrovai tutti lì, sorridenti tra i cipressi e qualche erbaccia di troppo. Riposavano ai piedi delle loro colline, nell’unico posto al mondo dov’erano stati e dove avrebbero voluto stare.
Faticai a trovarla, e dovetti passare più volte tra le righe sbilenche delle tombe.
Gilda, nella foto era giovane e spensierata.
Sostituii i fiori secchi nel vaso incrostato con le margherite che le avevo portato. Era morta da quasi due anni, ma io lo sapevo da poco.
Dalla fine del servizio civile avevo pensato migliaia di volte di tornare al paese, per salutare i piccoli maestri, ma non l’avevo mai fatto, e con il passare il tempo diminuivano la voglia ed il coraggio.
Poi avevo incontrato Simone ad un concerto. Eravamo arrivati insieme nell’appartamento sgangherato e al momento di diventare i nonni, eravamo già fratelli.
Lui, che viveva vicino al paese, mi aveva aggiornato saltuariamente nel corso degli anni. Così mi disse di Gilda. Dovevo aspettarmelo, dopotutto, ma mi sentii triste e stupido per non essere andato a trovarla in tempo.
Sistemandole i fiori mi sembrava di sentirla ‘Sei in ritardo, moretto’, come quando andavo a portarle la spesa. Aveva una casa vecchia e grande sul clivo, circondata da campi e da un boschetto fitto.
Per giungere lassù c’era una stradina nascosta che partiva dal retro della chiesa. Era ripidissima, ma di questo nessuno mi aveva avvertito. La prima volta partii con la biciclettina che avevamo in dotazione, dato che la Panda era appannaggio del nonno, e con la quale a malapena riuscivo a portare la borsa sul terreno piano.
Cercai di inerpicarmi lungo la salita pedalando come un matto, e pochissimo c’era mancato perché non ruzzolassi giù con tutto il resto. Proseguii con la bicicletta al mio fianco, una mano sul manubrio e una sulla borsa della spesa.
Arrivato boccheggiante allo spiazzo antistante la casa, fui circondato da un gruppo abbaiante di cagnolini. Dopo un po’ uscì una signora canuta piccolissima, trascinandosi la gamba destra sulla polvere del cortile. Guardò la bicicletta, poi la mia faccia sudata, ed infine la borsa della spesa. ‘Sei il ragazzo nuovo?’ mi chiese brusca nel dialetto strettissimo di quelle parti. ‘Come?’ le risposi.
Alzò gli occhi al cielo e fece allontanare i cani. Poi rientrò in casa senza dirmi niente, e io la seguii con la borsa e un bel po’ di soggezione.
Si vedeva lontano un miglio che non amava dare molta confidenza, però mi sembrava simpatica; sentivo che sarebbe stato sufficiente superare il muro di diffidenza per conoscerla veramente. E così fu; in poco tempo si convinse che non ero proprio un imbecille. Iniziò persino ad esprimersi in simil-italiano per farmi capire meglio le sue parole. Era gentile, ma non parlava molto; sapevo solo che si chiamava Rosa, aveva 81 anni e viveva lì da sola perché non aveva più parenti. Sua sorella, vissuta sempre con lei, era morta qualche anno prima; nessuna delle due era mai stata sposata e così non c'era alcun figlio o nipote che andasse a trovarla. Quando capitava lì qualcuno del paese, si stupiva a trovarmi a parlare con lei, perché il ragazzo che mi aveva preceduto non aveva acquisito nemmeno il diritto di oltrepassare la porta.
Da subito avevo pensato che ci fosse qualcosa di terribile nella storia di Rosa; la pelle delle sue braccia era completamente rovinata da quelle che sembravano bruciature.
Non avevo coraggio di chiederle cosa le fosse successo,e lei non ne parlava mai.
Si divertiva molto a sentirmi raccontare degli altri vecchietti della zona; io condivo un po’ le storie e lei si rideva. Aveva un bel sorriso, e degli occhi strani, ora luminosi da ragazzina, ora un po’ spenti come se non vedessero.
Qualche volta si fermava per uno spasmo di dolore ma non voleva mai dirmi cosa avesse; ‘è già passato’ diceva, sorridendomi per convincermi.
‘Eri forte’ le dissi, accovacciato davanti al blocco di granito. Una parte della lapide rifletteva la luce del sole mentre il resto della tomba era protetto dall’ombra del cipresso più grande. Avevano scelto un bel posto per lei e ogni tanto si ricordavano di andarla a trovare, a giudicare dalla corona di alloro secco posta sulla tomba, probabilmente per il 25 Aprile.
Ricordai con un brivido un mattino d'estate in cui ero andato a portarle la spesa; faceva molto caldo, ma il tempo stava cambiando e nuvole scure dominavano l’orizzonte. C’era quell’atmosfera elettrica di certi giorni torridi, e Rosa sembrava soffrirla molto. Mi versò il tè fatto apposta per me e si mise a lavare l’insalata che aveva raccolto dall’orto. Si sentì un rumore in lontananza, che poteva essere un tuono o un trattore o che altro. O meglio, lei lo sentì, io non ci avevo fatto caso. ‘Cos’era?’ mi chiese con gli occhi spalancati. Guardò dalla finestra ed era agitata. ‘Forse sta arrivando un bel temporale, chissà che ci porti un po’ di fresco’ dissi da ventenne che parla come un anziano. Non sembrò tranquilla, ma continuò a lavare l’insalata.
Poi lo sentimmo di nuovo; Rosa sembrava sempre più impaurita, ma immaginavo che non fosse il temporale a spaventarla. La terza volta in cui il rumore riecheggiò, ora più vicino, Rosa mollò l’insalata nel lavandino e si allontanò con le mani bagnate urlandomi di spegnere la luce. C’era ancora il sole, e la luce non era accesa; ma quello che mi sconvolse di più fu vedere i suoi occhi atterriti. Cercai di chiederle se si sentisse bene ma lei continuava a dirmi in dialetto ‘Spegni la luce! E’ Pippo! Andiamo di là!’. Mi avvicinai per cercare di calmarla, ma dopo un attimo, come in un sussulto, lei si fermò e tirò un lungo sospiro. Si lasciò andare su una sedia, sorridendomi tristemente. Le chiesi almeno cento volte cosa stesse succedendo, ma non volle dirmelo. Mi rassicurò continuando a dirmi che si era solo sbagliata. Poi mi disse ‘Va, moretto, che è tardi’ e furono inutili i miei tentativi di rimanere per accertarmi della sua salute.
L’episodio mi aveva lasciato molto scosso, perché Rosa si era sempre dimostrata lucidissima. Mi sembrò opportuno parlarne con qualcuno e scoprii tutto quello che c’era da scoprire.
Rosa era molto sveglia, ma a volte capitava che perdesse l‘orientamento e tornasse indietro di diversi anni. Pippo era il nome con cui le persone comuni indicavano il bombardiere che, solitamente di notte, presidiava il cielo durante la seconda guerra mondiale. Io, che avevo perso i nonni quand’ero piccolo, non lo sapevo proprio. Dove c’era una luce, Pippo colpiva, perché dove c’era luce c’era un covo di tedeschi. E così la gente correva a spegnere anche la più piccola candela, pregando che il rumore passasse sopra la casa lasciandola indenne.
Pensai a quale coraggio servisse, a vivere durante la guerra. A cosa doveva essere avere ogni minuto paura. Feci un giro su me stesso passando lo sguardo sul piccolo cimitero, e pensai a quante di quelle persone erano sopravvissute al terrore della guerra. Pensai che io non avrei mai avuto tutto quel coraggio.
E tu, Gilda, quanta forza avevi dentro quel corpicino? Pur segnato a vita, quel corpo malandato aveva resistito per tutti quegli anni senza cedere, senza appoggiarsi a nessuno, senza distruggersi sotto il peso dei ricordi.
Pensai che non le fanno più, persone di quella caratura, poi pensai che mi stavo facendo dei discorsi moralisti da solo, salutai Gilda e gli altri e uscii dal cimitero. Vagai per il paese come un reduce. I ricordi erano vivaci, ma quelli più colorati riguardavano Gilda, e mi sentivo davvero male, come se il suo funerale fosse appena terminato.
Mi sarebbe piaciuto conoscere la Gilda giovane, quella piccola ribelle fanciulla che non rifiutava mai un invito a ballare. Era tanto allegra e corteggiata, ma non si era mai sposata e l’allegria, quella l’aveva persa del tutto quel terribile giorno di novembre.

L’umidità è insopportabile oggi. La stufa arde da stamattina presto, ma mani e piedi non vogliono saperne di intiepidirsi. Quei sessanta chilometri percorsi ieri con la bicicletta in mezzo alla nebbia hanno lasciato il freddo dentro le ossa. Maria non c’è, in questi giorni, poiché una parente ha appena partorito ed ha bisogno di lei. Sembra strano non scorgerla alla finestra ad aspettare di vedere arrivare la bici, per poi scappare in cucina e fingersi indaffarata. Ha paura, Maria, che un giorno la bici non torni più. Ma Rosa, la staffetta Gilda, ha dei compiti importanti da portare a termine; compiti che possono salvare la vita di molte persone.
Vicino al suo orto c’è un uomo che non conosce, si sta avvicinando. Esce di corsa per chiedergli cosa vuole, ma sembra un brav’uomo. Si qualifica come partigiano e le spiega a quale brigata appartiene e perché ha bisogno di lei; sa troppe cose, non può essere un impostore. C’è un messaggio urgente da portare subito, e lui non può farlo perché, vede, ha la gamba azzoppata.
Gilda è stanca, ma parte. Forse ha anche la febbre, perché si sente strana, e quel pezzetto di carta, identico a mille altri portati su e giù per la provincia, le sembra pesare come fosse di ferro.
Come fa tutte le volte che è stanca o che ha paura, canta nella testa le canzoncine che le piacciono di più, e immagina di ballare sotto la tettoia dei vicini con il suo vestito lillà. Quando pedala con le sue gambe ormai forti, di solito pensa sempre a sua sorella; pensa al pericolo che corre in continuazione per amor suo e prega, prega che nessuno le faccia mai del male.
Quel giorno non pensa a Maria, perché Maria è al sicuro e anche il neonato tra le sue braccia lo è. Entrambe adorano i bambini; Sono ancora giovani, e il sogno di creare una bella famiglia non è ancora svanito.
La testa si fa sempre più pesante e le gambe fanno fatica a girare, e c’è questa strana sensazione di angoscia che non riesce a giustificarsi. Vede un cagnolino, per strada. Se ne sta disteso in modo strano, forse sta male, ma lei non ha tempo di fermarsi. Lo farò al ritorno, pensa.
E poi è una attimo, vedere, capire, ingoiare il foglietto e donare l’anima a Dio. E’ tutto finito.

Quattro mesi ti tennero prigioniera, Gilda mia. Mi venne un conato, e dovetti fermarmi un attimo e respirare. Non avevo più pensato a tutto questo per troppi anni.
Per quattro mesi ti hanno picchiata, violentata, torturata con un ferro da stiro incandescente. Per tutta la vita non hai potuto dimenticare neanche un attimo di quei giorni infiniti, perché il loro ricordo era lì, su ogni angolo della tua pelle. Ed è questo che mi sembra incredibile; non i quattro mesi in cui hai sopportato e non hai detto niente, perché tanto saresti morta tu, ma altri non sarebbero morti a causa tua. Ma gli anni che si sono susseguiti, in cui hai trascorso una vita quasi ‘normale’. Non sei impazzita, Gilda, e non so come. Qualche vuoto di lucidità non ti è di certo bastato a dimenticare, e davvero avrei voluto per te che la mente partisse del tutto, e che tu diventassi una di quelle anziane che non sanno dove sono e non riconoscono nemmeno i parenti.
Invece hai dovuto rimanere presente a te stessa per tutti questi anni, e non basterebbero bastioni di corone d’alloro e targhe e medaglie per ripagarti del tradimento e dell’umiliazione della solitudine.
Pensavo a tutte queste cose, camminando in quel paesino che iniziava a starmi troppo stretto. Non farti venire l’attacco di panico adesso, mi dicevo, scemo. Attacchi di panico; ah Gilda, non ridere se mi stai guardando.
Entrai persino in chiesa e, una volta uscito, passarono dieci buoni minuti prima che mi decidessi a imboccare quella stradina.
L’avevano asfaltata da poco, e io facevo una fatica incredibile a salire; mi sentivo quasi in pellegrinaggio.
Arrivato al piazzale della casa, notai che non era cambiata molto. Mi aspettavo di vederla fatiscente e grigia come se fosse abbandonata da anni; non ci abitava nessuno, ma la tenevano in buono stato. Qualcuno continuava a curare l’orto.
Avevo pianto per tutta la salita, come un bambino, e pensavo che se Gilda fosse improvvisamente uscita e mi avesse visto, si sarebbe presa gioco di me.
Facendo il giro della casa vidi una targa, inchiodata al muro che dava verso l’orto. L’avevano messa in onore di quella donna della Resistenza. Sotto, qualcuno aveva attaccato una fotografia in bianco e nero un po’ rovinata: Rosa, detta Gilda, era giovane e forte e aveva le braccia lisce e candide come quelle di una sposa.
Ballava, Gilda, calpestando la guerra e la viltà.

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